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"Sindrome Vietnam per i militari USA" di Vittorio Zucconi

WASHINGTON - Torna il sole, torna la guerra. La serena indifferenza del tempo contro la crudeltà degli uomini. Si aprono le nubi sulla Serbia e subito si chiude la speranza. Più bombe, più profughi, più intransigenza. Il bel tempo apre la strada a nuove ondate dei bombardieri e la guerra aerea totale può finire ormai soltanto con la resa totale di Milosevic. "Non ci può essere compromesso con un dittatore che vuol regnare sulle rovine della sua nazione", dice Clinton per battere d'anticipo Belgrado che medita qualche "mezza misura" per scardinare l'incerta unità della Nato. Non ci potrà essere sosta o pausa in un attacco dal cielo che sarà "implacabile, ininterrotto, incessante", ci promette, perché l'America, con i suoi alleati, "andrà fino in fondo", fino alla capitolazione di Milosevic, al ritiro completo dei serbi e al ritorno a casa dei deportati sotto lo scudo Nato.

E mentre comincia il ponte aereo tra gli Usa e le valli dei dannati ai confini della Macedonia via Taranto, crolla ogni illusioni di un possibile ponte diplomatico. Milosevic è Hitler, fa capire Clinton, e con gli Hitler non si tratta. La Casa Bianca è prigioniera della "sindrome di Monaco". Terribile retorica. Ironia crudele di un tempo che migliora soltanto per favorire gli attacchi. Aria di escalation. Parole gravissime, come resa totale, capitolazione, usate dal presidente per battere d'anticipo qualche manovra di Belgrado per dividere gli Alleati con mezze promesse. Ma se guardiamo oltre il presente, oltre le masse dei profughi, oltre le ombre nere degli "Apache", un volto raggelante dietro questa guerra sempre più guerra si intravede: il profilo di una donna. Monica.

No, povera ragazza, non è stata lei a scatenare la guerra nei Balcani, a creare la strategia della guerra a piccoli passi che sta seminando rancori e dissensi tra il potere politico e il Pentagono. Ma furono lo scandalo e la paura dell'impeachment, ci dicono oggi i media americani, a paralizzare Clinton l'anno scorso quando Milosevic sarebbe stato più trattabile e Washington avrebbe potuto agire con decisione per prevenire la cancrena della guerra. Sembra osceno dirlo, ma le notizie e le "rivelazioni" che arrivano ai media americani costringono a concludere che il Kosovo e la Serbia stanno pagando anche per Monica. Come non esistono "piccole guerre" per chi le fa e le subisce, non possono esistere "piccole crisi" quando scoppiano nel cuore della nazione che è la architrave dell'ordine mondiale. E infatti l'assedio che la magistratura e l'opposizione avevano stretto attorno alla presidenza nel 1998 hanno fatto perdere a Washington la "finestra" di compromesso che nell'autunno scorso si era socchiusa, secondo la Cia, il Dipartimento di Stato e le cancellerie europee se il presidente avesse dato una prova di forza con Milosevic e inviato allora reparti Nato in Kosovo, come era stato proposto da francesi, inglesi, tedeschi e italiani.

Ma per timore di alienarsi l'elettorato e il sostegno del proprio partito che lo proteggevano dalla destituzione, il Clinton prigioniero delle sue bugie non fece niente. La finestra si chiuse. E "la morsa degli eventi", come scrive "Newsweek", si strinse attorno a lui e, soprattutto, agli sciagurati kosovari. Ora, nella seconda settimana di guerra, arrivati al tredicesimo giorno di bombe, non restano al presidente e all'Alleanza atlantica altro che "una serie di opzioni cattive, peggiori o pessime" ("Washington Post"), sperando intanto che il tempo sulla Serbia migliori e i bombardamenti possano intensificarsi. L'escalation verso le operazioni a terra è ormai evidente, nonostante le smentite d'ufficio del Pentagono. Gli attacchi dal cielo non hanno piegato Belgrado e i pianificatori sono ridotti a maledire le nubi, più forti di tutte le tecnologie, che hanno accecato la modesta intelligenza artificiale delle bombe. I 24 elicotteri anticarro Apache e i duemila uomini dei reparti d'appoggio che stanno arrivando al fronte sono unità della Us Army, dunque dell'esercito, non più dell'aviazione o della marina. Sono unità concepite per la guerra a terra, accompagnate da reparti di artiglieria con lanciamissili Atacom di corta gittata che avranno il compito di neutralizzare la contraerea serba durante gli attacchi degli elicotteri. Sono armi micidiali e senza più nessuna pretesa di essere "chirurgiche".

I missili Atacom colpiscono all'ingrosso: ognuno di loro libera novecento minibombe a frammentazione sul terreno. Dunque, la distanza che separa le truppe serbe e le truppe Nato continua ad accorciarsi. La speranza clintoniana di potere fare la guerra a tavolino - l'"Immacolata Distruzione" come la definiscono sarcasticamente i generali Usa - si sbriciola. Cambiano i mezzi bellici, e cambia l'obbiettivo. Da venerdì scorso, dopo una riunione preliminare nella situation room il centro di comando nei sotterranei della Casa Bianca, guidata personalmente dal Capo dello Stato, l'Amministrazione, i generali e la Cia hanno cominciato a studiare la possibilità di colpire direttamente Milosevic, "Slobo" come lo chiamano qui, sprezzanti. Dove, con che strumenti, non sappiamo, ma l'aver puntato l'attenzione su di lui dimostra un altro cambio di vento, nelle stanze del potere americano, e la caduta di un'altra illusione: quella che Milosevic fosse indispensabile per raggiungere un accordo di pace e dunque l'attacco aereo dovesse forzargli la mano, ma non abbatterlo. Madeleine Albright, la signora di origine cecoslovacca ed ebraica che qualcuno accusa di avere "il complesso di Monica" e ha paragonato "Slobo" a Hitler, sta vincendo. Per ora, Clinton è con lei, la piccola, decisa sparviera di questa amministrazione.

Ma non sono con loro i militari, il Pentagono, i generaloni a quattro stelle che tentarono invano di dissuadere Clinton e la Albright dal lanciare l'operazione "Forza Alleata", nome in codice di questa guerra. I giornali sono pieni di "indiscrezioni" fornite dai militari che sostengono di avere avvertito per tempo la Casa Bianca e di averla informata che i serbi avrebbero lanciato una controffensiva contro gli inermi kosovari, per sconvolgere la Nato logisticamente e psicologicamente.

I capi di stato maggiore spiegarono a questo presidente digiuno di esperienza militare, appena una settimana prima del via agli attacchi, che - riporta "Newsweek" - "non si può dare la caccia a commandos, armati di mitra che sparano ai civili, con i bombardieri" e che "Slobo" avrebbe risposto con l'esodo forzato dei kosovari. "Lo sapevamo benissimo - risponde il ministro della Difesa, irritato - ma alla fine non c'erano alternative e i generali concordano". Non è vero. Il dissenso dei militari americani è completo, la loro collera per essere ancora una volta chiamati a rischiare la vita e il prestigio per la follia dei politici tracima sulle pagine dei settimanali e dei giornali, sotto la consueta forma delle "fonti anonime".

"Il gradualismo imposto da Clinton è il meccanismo classico del Vietnam", dice un generale in servizio "e rinnega la lezione della guerra del Golfo". "La strategia dei bombardamenti aerei a piccoli passi mette in difficoltà la coesione politica della Nato senza produrre alcun risultato" fa sapere un'altra "gola profonda" dal Pentagono. Non ci saranno, non ci sono mai stati nella storia americana, insubordinazioni e ribellioni militari, ma i brontolii che arrivano dalle gerarchie in uniforme che avevano scongiurato Clinton di non imbarcarsi in questa operazione sono forti e comprensibili. Il tempo, tra dissensi interni e scricchiolii di governi Nato premuti dal ritorno dell'antiamericanismo dormiente, non lavora per Clinton.


REALIZZATO DAL GRUPPO "COMUNICARE" DEL LICEO SCIENTIFICO KEPLERO DI ROMA