"Qual è la vera ragione" di Eugenio Scalfari
In questa guerra aerea della Nato contro la Serbia ci sono alcuni aspetti
che restano oscuri nonostante i tentativi dei protagonisti di fornirne una plausibile spiegazione. E ci sono molti
comportamenti irrazionali e/o coatti e/o egoistici, dettati cioè da interessi particolari e senza nessuna
visione più generale che li riscatti. Tutto ciò suggerisce alcune domande e consente qualche tentativo
di risposta. La prima domanda è questa: perché mai il presidente degli Stati Uniti ha deciso, dopo
averci pensato sopra un bel po', di scatenare questa vera e propria tempesta militare e politica servendosi della
Nato come braccio armato e battezzandola "Determined force"? L'amministrazione americana, il Consiglio
della Nato e i governi che ne fanno parte hanno cercato di diffondere motivazioni plausibili che però plausibili
non sembrano.
La prima e più ripetuta con (finta) convinzione è quella umanitaria dalla quale deriva, sulla base
dello statuto dell'Onu, il "diritto all'ingerenza" anche nei confronti di uno Stato sovrano. Questo diritto
all'ingerenza umanitaria è entrato a far parte del diritto internazionale in data abbastanza recente; diciamo
che con esso l'etica ha fatto un suo ancor timido ingresso sul terreno della politica. Quel diritto rappresenta
un passo avanti importante della coscienza moderna verso l'affermazione dei diritti umani e della loro tutela al
di sopra dei confini. In un certo senso postula "in nuce" la necessità di un governo mondiale
o quanto meno di un arbitro planetario dotato di autorevolezza e forza sufficienti per sanzionare coloro che violano
quei diritti. L' Onu nacque subito dopo l'ultima guerra mondiale per essere appunto quell'arbitro, ma i cinque
vincitori della guerra si riservarono il potere reale confiscandolo agli altri paesi membri.
Poiché tuttavia tra i cinque non correva buon sangue, il potere di veto attribuito a ciascuno di loro ed
esercitato sistematicamente da due di essi alternativamente paralizzò l'organismo. In conclusione la tutela
dei diritti umani rimase in larga misura un'enunciazione teorica. La crisi balcanica scoppiata nel 1991 ma in incubazione
fin dalla morte di Tito ha riproposto drammaticamente il tema nel momento in cui i conflitti etnici, religiosi
ed economici sono riemersi sotto la fragile crosta dell'ideologia comunista ormai da tempo in pezzi. L'Occidente
se ne è tenuto fuori finché ha potuto; infine è intervenuto sotto la bandiera dell'Onu quando
il mattatoio bosniaco aveva raggiunto un livello non più oltre tollerabile e nel momento in cui l'Unione
Sovietica aveva cessato di esistere e la Russia aveva perso ogni reale capacità d'interdizione.
Il Kosovo si trova nelle stesse condizioni della Bosnia di quattro anni fa? Sicuramente sì dal punto di
vista dei principi violati di autodeterminazione e di sicurezza della popolazione. Probabilmente no dal punto di
vista dell'intensità e dell'ampiezza delle violazioni. La verità è che mancano dati e riscontri
certi. I verificatori dell'Onu non sono riusciti a verificare granché; le associazioni del volontariato
ancor meno. I racconti e i filmati raccolti negli ultimi sei mesi da giornalisti e viaggiatori occidentali sono
altamente drammatici ma altrettanto episodici. Il solo dato relativamente attendibile è quello proveniente
da Amnesty International che parla di duemila persone uccise e venti o trentamila scacciate dai loro villaggi.
E poi - altro dato inoppugnabile - c'è il conflitto armato tra la polizia e l'esercito serbo da un lato
e la guerriglia albanese kosovara dall'altro. Infine c'è l'ondata di profughi soprattutto verso la Puglia:
qualche centinaio di persone nell'ultimo semestre.
La violazione dei diritti umani dei kosovari albanesi, lo ripeto, è indubbia e drammatica; la sua ampiezza
quantitativa è supposta. Per la coscienza morale di ciascuno di noi quella violazione può essere
considerata sufficiente all'applicazione di gravi sanzioni contro i responsabili, ma per una potenza come gli Stati
Uniti d'America certamente essa è largamente insufficiente come lo fu e tuttora lo è in casi ben
più gravi, veri e propri genocidi, nel sudest asiatico, nell'Africa centrale, nel Kurdistan turco, per non
parlare del Cile e delle repubbliche centro- americane dove spesso la violazione accadde sotto gli occhi del governo
Usa se non addirittura da esso incoraggiata.
Motivare la guerra della Nato contro la Serbia con il diritto all' ingerenza umanitaria è dunque chiaramente
un pretesto o nel migliore dei casi una causa seconda. Personalmente auspicherei che rispondesse a verità,
ma si tratta all'evidenza d'una motivazione non credibile: perché solo nel Kosovo? Perché senza nessun
serio tentativo di coinvolgere l'Onu? A questi interrogativi non è stata data risposta. Un'altra motivazione,
che in verità non promana da nessuna fonte ufficiale ma è frutto di analisi giornalistiche tutt'altro
che cervellotiche, si fonda sulla determinazione americana di farla finita una volta per tutte con il nazionalismo
serbo e con il clan di Milosevic che lo impersona nella forma più estrema. Milosevic costituirebbe cioè
un elemento di permanente destabilizzazione in una regione già storicamente destabilizzata, nonché
un prototipo esportabile e imitabile. Si pensa soprattutto alla Russia e all'Ucraina, potenze stremate ma ancora
in possesso di vasti arsenali nucleari, che potrebbero essere incoraggiate da un lassismo imbelle nei confronti
della Serbia e potrebbero evolvere anch'esse verso regimi nazionalistico-militari di altissima pericolosità.
Quest'analisi ha indubbiamente una sua consistenza e richiama lo spettro di Monaco, dell'annessione dell'Austria
e della Cecoslovacchia al Terzo Reich. E tuttavia è fervorosamente negata dall'amministrazione Usa, dal
Consiglio della Nato e da tutti i governi che vi partecipano. Ma al di là dei dinieghi ufficiali che potrebbero
anche esser dettati dalla tattica della dissimulazione, resta che una guerra volutamente limitata a un'operazione
sia pur massiccia di bombardamento aereo non risolve la questione. Essa rinsalda politicamente il nazionalismo
serbo e non prepara una destituzione di Milosevic. Per realizzare quel disegno, ammesso che lo si volesse realmente
perseguire, ci vorrebbe una guerra vera e propria sul terreno. Non sto a dilungarmi sull' impraticabilità
militare e politica di un'iniziativa di questo genere, che risulta evidente agli occhi anche del più sprovveduto
osservatore. Allora qual è la vera ragione di "Determined force"? La sola che emerge in quest'
immenso polverone sta appunto nella nascita di "Determined force": gli Stati Uniti hanno deciso di assumersi
ufficialmente e in permanenza il ruolo di gendarmeria militare e, stanchi di doversi impantanare nelle estenuanti
procedure dell'Onu, hanno affidato alla Nato la funzione di gendarme. Così è nata "Determined
force" e l'operazione serba consiste appunto in quell'atto di nascita. Non è un caso che la forza d'interposizione
che si vorrebbe insediare in Kosovo è una forza Nato e non una forza Onu. Se il gendarme è la Nato
tocca dunque ad essa far da sentinella a guardia della pace ristabilita.
La seconda questione è questa: potevano i governi europei membri della Nato impedire la nascita di "Determined
force"?
È evidente che non potevano. Una loro dissociazione avrebbe dato un via libera totale alla repressione serba
in Kosovo. Ma soprattutto avrebbe prodotto una rottura traumatica e drammatica tra Europa e Stati Uniti; rottura
politica, militare, economica. L'Europa è ancora in uno stato larvale. Una rottura di quella vastità
e profondità l'avrebbe precipitata nel più completo caos.
Per conseguenza l'Europa ha accettato la nascita di "Determined force"; alcuni governi senza riserve,
con il proposito di dimostrare a Washington la loro "partnership" di prima fila, ed è il caso
della Gran Bretagna di Blair; altri con alcune o molte riserve aggrappandosi ad un'interpretazione letterale dei
documenti diplomatici emessi in questa circostanza: intimidire Milosevic con la forza e riportarlo tenendolo per
un orecchio al tavolo di Rambouillet.
Il retropensiero, in parte alimentato anche dagli strateghi della Nato, era e ancora è che bastasse il primo
colpo di "Determined force" per ottenere quel risultato. Poi, strada facendo, si è capito che
non sarà così. Una, due, tre settimane di bombardamenti. E se neanche questo bastasse? Dalla fase
uno, alla fase due? Dalla disarticolazione dei sistemi di telecomunicazioni e dell'antiaerea all'annientamento
(?) dell'esercito serbo? In quanto tempo? Gran parte dei corpi scelti serbi sono alloggiati in caserme "cavernicole";
come ci potrà arrivare "Determined force"? E che farà la Russia? Come reagirà l'opinione
pubblica dei paesi europei? Tutte domande finora rimaste senza risposta. Una cosa dev'esser chiara: chi si pone
queste domande non è affetto da anti-americanismo e conosce bene quale sia stato e tuttora sia il valore
dell'Alleanza nord-atlantica. Ma resta il diritto, vorrei dire la necessità, di conoscere dove stiamo andando
e perché. Si salvano in questo modo i kosovari? Si abbatte con questi mezzi il nazionalismo serbo? Oppure
si sta soltanto battezzando "Determined force" affidandole anche per il futuro l'incontrastato potere
di decidere per tutti in Europa (dove finisce l'Europa?) e in tutto il bacino del Mediterraneo? Queste domande
esigono risposta e molto tempo non c'è.
Due parole sul ruolo del governo italiano in questa circostanza.
Abbiamo già detto che non era in grado - quand'anche l'avesse voluto, e giustamente non lo voleva - di dissociarsi
dalle decisioni di Clinton. Le proteste di Bertinotti sono querimonie con radici oniriche, politicamente e razionalmente
inconfacenti.
Poteva e può attenersi alla motivazione ufficiale dei documenti: sparare per tornare al tavolo del negoziato
non appena si aprirà uno spiraglio. Le proteste di Cossiga (e di Berlusconi) sono a loro volta vaniloqui:
si pretende che l'adesione alla Nato si esprima attraverso atti di fede? Cambiali in bianco? Deleghe senza riscontro?
Tutta la questione, in concreto, sembra ora ridursi a questo: conviene riaprire il contatto mentre ancora si spara
o bisogna aspettare la resa incondizionata di Milosevic? E se si segue la prima strada, con chi bisogna riaprire
il contatto?
Il governo italiano sta imboccando la prima strada. La nostra diplomazia, in accordo con quella vaticana, sta cercando
il contatto con quella russa. Ovviamente si tratta di passi riservati ma non ignoti alla Casa Bianca e alle altre
capitali europee.
Non è questo un modo leale e intelligente di comportarsi da parte di un alleato che non ha lanciato missili
né inviato squadriglie al di là dell'Adriatico ma che sta fornendo a "Determined force"
una portaerei gigantesca e preziosa che va da Trieste fino alla punta dello Stivale? Questo è lo scacchiere
sul quale si gioca la difficilissima partita. Viene in mente il manzoniano Don Ferrante in mezzo al tumulto di
piazza e il suo suggerimento al cocchiere frastornato: "Adelante, Pedro, con juicio". Tutto fa credere
che D'Alema stia operando in questo modo e questa volta non come mosca cocchiera ma nel ruolo di chi rappresenta
quella portaerei naturale sulla quale noi tutti abitiamo.
Difficile non augurargli buona fortuna. "Con juicio" ma anche "adelante".
Poi ci sarà il tema di fondo: quello di discutere della Nato, del suo ruolo e dei suoi confini. Tema difficile
fino a quando l' Europa non avrà messo in comune la propria difesa e la propria politica estera. Ce n'è
di lavoro da fare.