"Il mercante di Mosca" di Sandro Viola
Le "risposte adeguate" che la Russia promette di dare all'attacco
della Nato contro la Serbia, sono parole e basta. Il brontolio d'una potenza decaduta, le inconsistenti minacce
con cui i deboli reagiscono all'azione dei più forti. Tutto può infatti scaturire dalla decisione
americana d'iniziare i bombardamenti attorno a Belgrado e a Pristina: una spirale di guerra nel breve termine inarrestabile,
un contraccolpo nella politica interna d'alcuni paesi dell'alleanza, forse un ulteriore e più fitto aggrovigliarsi
della questione Kosovo. Ma nella lista di queste possibili conseguenze negative, non entrano le "risposte
adeguate" di cui parla il Cremlino. Perché la Russia, nel dramma che si sta svolgendo nei Balcani,
non ha un ruolo da protagonista. Essa è costretta dalla sua debolezza a fare la comparsa, se non addirittura
lo spettatore.
Conviene tuttavia chiedersi che cosa stia progettando, dietro la cartapesta delle parole minacciose e degli atteggiamenti
da grande potenza, il governo di Mosca. Occorre farlo, perché se è vero che la Russia è impotente
adesso, è vero anche che nel prossimo futuro bisognerà fare i conti col suo risentimento.
Bisognerà cercare di lenirne la frustrazione, l'astio, per almeno due ragioni. Perché la Russia è
la Russia, ma soprattutto perché una cosa è avere un Milosevic a Belgrado, e un'altra sarebbe trovarsi
un giorno con una specie di Milosevic russo al Cremlino. L'impressione è che da quel che resta d'un governo
della Russia (un presidente malato e stravagante, un primo ministro immobilista, un parlamento già pronto
- in vista delle elezioni di dicembre - agli appelli populisti) possano uscire al momento due sole scelte. Due
sole linee politiche nei confronti dei paesi della Nato. La prima di queste scelte possibili, è di natura
essenzialmente pragmatica. La Russia d'oggi ha bisogno di tutto, e in particolare - dato che è sull'orlo
della bancarotta - di soldi. Di molti soldi. E quel che sta avvenendo nei Balcani, ha capovolto la situazione delle
scorse settimane.
Sino all'altro giorno, infatti, il Fondo monetario internazionale e i governi dell'Occidente erano intenzionati
a non aprire per l'ennesima volta la Borsa. Stanchi di vedere scomparire i loro crediti nel marasma dello Stato
post-comunista, ormai sfiduciati circa la capacità di gestione dei governi di Mosca, essi sembravano decisi
a rifiutare il rifinanziamento del debito russo. Ma oggi è diverso. Oggi, ponti d'oro. Nessuno negherà
alla Russia, quando il fragore dei missili sulla Serbia si sarà placato, gli aiuti di cui ha bisogno. Come
s'è detto prima, la Russia umiliata nella vicenda balcanica dovrà essere rabbonita. Questa è
dunque una delle due scelte, la scelta pragmatica, che il governo di Mosca può fare. Servirsi delle circostanze
favorevoli che si sono create con l'attacco alla Serbia, per ottenere nuovi aiuti dall'Occidente. Continuando a
brontolare in direzione della platea, certo (ogni tanto un vago accenno a "misure da prendere" e ad "accordi
da rivedere"), ma in realtà mirando al sodo: alla decina di miliardi di dollari di cui ha bisogno urgente.
E che anzi potrebbero diventare, con un po' di scaltrezza, con un uso accorto dell'orgoglio offeso, parecchi di
più. Nell' arte del chiedere, lo sappiamo, i russi sono maestri. Ma insieme a questa, una seconda scelta
è possibile. Le elezioni vicine (legislative a dicembre, presidenziali a giugno dell' anno prossimo) potrebbero
spingere una grossa parte delle famiglie politiche moscovite a puntare tutto e sino in fondo sulla carta dell'umiliazione
nazionale. In un paese debilitato, dove in quest'ultimo anno si sono dissolte tante speranze di ripresa, gli appelli
a una mobilitazione contro l'Occidente "che vuole vedere la Russia in ginocchio", non cadrebbero nel
vuoto.
Già il frettoloso e forse incauto allargamento della Nato a Est, aveva prodotto in Russia un effetto psicologico
assai negativo. Né bisogna dimenticare che i sondaggi elettorali prevedono un ritorno al Parlamento della
stessa accozzaglia di comunisti e nazionalisti che c'è oggi. La parte "moderna" dell'elettorato,
i giovani nelle città, i professionisti, il po' di piccoli imprenditori sopravvissuti alla crisi dell'agosto
scorso, resta infatti minoritaria. Così, su una grande massa di russi che soffrono - oltre alle difficoltà
materiali - il crollo del rango di superpotenza che il paese aveva avuto per mezzo secolo, la suggestione d' un
isolamento acre, risentito, potrebbe esercitare un forte richiamo. Slogan ispirati all'idea d'una Russia "sola"
e incompresa come in tanti momenti della sua storia, potrebbero rivelarsi incendiari. Intanto i debiti non verrebbero
pagati, prestiti non se ne potrebbero più ottenere, e finirebbero anche gli aiuti in viveri e medicinali
che l'Occidente sta inviando da parecchi mesi. Aggravandosi le condizioni di vita della popolazione, su uno sfondo
torbido di rancori e revanscismi, sfumerebbero le residue possibilità di creare un'accettabile economia
di mercato. Prevarrebbe la visione di un'economia a forte profilo statalista, gestita tra l'altro dagli stessi
uomini - già oggi in posti importanti del governo - che stavano al vertice del Gosplan. Il dialogo con l'Occidente
si ridurrebbe al minimo, e l'interlocutore principale di Mosca diverrebbe - in funzione antiamericana - la Cina.
Questo scenario, tra i due che sembrano delinearsi a Mosca, è il meno probabile. Quello d'un ricorso ai
prestiti occidentali per evitare l'insolvenza e quindi l'uscita dai mercati finanziari, sembra più ragionevole.
Ma l'ipotesi d'una Russia rigettata sul versante di coloro - comunisti e affini - che in questi anni erano sempre
stati contro l'integrazione all'Occidente, non è solo teorica. Le premesse, nella crisi interminabile che
la Russia sta vivendo, ci sono tutte.
E se l'ipotesi dovesse avverarsi, bisognerà metterla in conto agli errori che europei e americani hanno
fatto riguardo alla questione Kosovo. Nel colpevole ritardo con cui si sono accorti della sua esistenza, nel solito
ordine sparso in cui si sono mossi, nell'incapacità d'architettare in tempo una strategia che avrebbe potuto
mettere Milosevic nell'angolo e insieme evitare la guerra.