"Il falco di Belgrado" di Bernardo Valli
Quello umanitario è il meno convincente tra i motivi, solennemente
addotti, a sostegno dell'intervento aereo della Nato in Jugoslavia. Non perché non ci sia un dramma umano
nel Kosovo. Oltre alle immagini che ormai da anni ci arrivano da quella pianura ai piedi delle montagne albanesi,
montenegrine e del Sud della Serbia, abbiamo come prove concrete e quotidiane i profughi che si abbattono sulle
nostre coste adriatiche. Ma tra quei profughi ci sono anche dei curdi a testimoniare un altro dramma. Il quale
non è però classificato umanitario, perché avviene in una terra amica, alleata: in Turchia,
paese chiave della Nato, di cui nessuno si è mai sognato di violare la sovranità nazionale. Anzi,
il presidente Clinton si è detto preoccupato per gli effetti che lo straripamento della crisi balcanica
potrebbe avere sulla vicina Turchia, base indispensabile (insieme a Israele) per l'aviazione americana di guardia
in Medio Oriente, e quindi titolare di un'indiscutibile immunità.
Ma a far dubitare che ci sia un autentico aspetto umanitario nell'intervento Nato in Jugoslavia non sono soltanto
i pesi e le misure diversi adottati nel giudicare le violazioni su quel terreno. Come si fa a non essere scettici
sull'uso dei bombardamenti come azione umanitaria? I loro effetti diretti e indiretti non rischiano di aggravare
la situazione degli albanesi? Tanto più che non è previsto, anzi è escluso, un successivo
intervento a terra per strapparli a un'ulteriore, più rabbiosa repressione. Non si rischia altresì
di aumentare il numero dei profughi? Quando (secondo il Washington Post) D'Alema gli ha chiesto cosa faranno gli
Stati Uniti se Milosevic non si dovesse arrendere alla ragione, e al contrario aumentasse la repressione contro
gli albanesi, Clinton non è stato in grado di rispondere. E' stato Sandy Berger, consigliere per la sicurezza,
a replicare: "Continueremo i bombardamenti". In quel momento, nell'ufficio ovale della Casa Bianca, si
deve essere profilata l'ombra del longevo Saddam Hussein.
Queste considerazioni portano a concordare almeno su un punto, il solo, con Slobodan Milosevic: poiché di
guerra si tratta, meglio non mascherarla da azione umanitaria, meglio chiamarla con il suo nome: e dunque, lui,
Milosevic, ha fatto bene a dichiararla. Ma la Nato, pur non definendola ufficialmente tale, non poteva evitarla.
Era in ballo la sua credibilità, proprio nel momento in cui sta per celebrare il cinquantesimo anniversario.
Una struttura militare non può essere sbeffeggiata a lungo, altrimenti perde la sua capacità di dissuasione.
Era da anni, da quando è cominciata la crisi jugoslava, che Milosevic la ridicolizzava: se non altro restando
al potere; malgrado i continui rovesci, le sconfitte a ripetizione, gli accordi sottoscritti ed evasi; nonostante
sia evidente che sta portando a un disastro peggiore dei precedenti la sua gente, il popolo serbo.
Milosevic è una vistosa reliquia del nazionalismo primitivo, quello che, su scala assai più grande,
con le sue degenerazioni ideologiche, ha provocato le tragedie del '900 europeo. E' a questo nazionalismo, ricreatosi
a pochi minuti di volo dalla nostra costa adriatica, che la Nato ha dichiarato di fatto la guerra. Quasi volesse
distruggerlo prima di entrare nel nuovo millennio. E' roba da lasciare al secolo che se ne va. Fallito il comunismo,
anche nella sua eccentrica versione jugoslava, Milosevic si è gettato in quel nazionalismo: e nel giugno
'89 ha dato solennità alla conversione recandosi nella pianura di Kosovo Polje, ai piedi del monumento alla
battaglia del 1389 (da cui cominciò il dominio ottomano, durato quasi mezzo millennio), per annunciare che
"mai più i serbi si sarebbero lasciati maltrattare". Con quel gesto e quelle parole Milosevic
ha spazzato via tutto quel che Tito aveva fatto per contenere i nazionalismi balcanici. E ha dato il via, in modo
più o meno diretto, a una serie di massacri in cui i serbi sono stati carnefici ma anche vittime, e da cui
sono sempre usciti sconfitti. Sono stati ripudiati dagli sloveni e dai croati, e molti loro insediamenti secolari
sono stati scalzati dalle province di confine bosniache e croate. E adesso il Kosovo.
Il nazionalismo serbo assume a tratti una colorazione religiosa e messianica, ereditata dal ruolo nazionale che
la Chiesa ortodossa ha avuto nei secoli. Nell'Europa occidentale il territorio della nazione si è sostanzialmente
delineato prima che si creassero una lingua e una cultura comune. Al contrario la nazione serba non ha un quadro
territoriale di riferimento. Le comunità, non sempre maggioritarie tra cattolici, ebrei e musulmani, si
identificavano in rapporto alla Chiesa serba. Era serbo chi era ortodosso. Si sono così creati spazi mistici.
Sono nate rivendicazioni territoriali stravaganti, dettate dagli avvenimenti politici del momento e dalle leggende.
I poemi nazionali hanno cantato per secoli il Kosovo come "culla del popolo serbo", e così lo
è diventato di fatto, e tale è rimasto benché abitato al novanta per cento da albanesi. Crollato
il comunismo, Milosevic ha sfruttato quel sentimento, attorno al quale, nei momenti di tensione, si raccolgono
anche tanti serbi di solito estranei ad ogni tipo di estremismo.
La letteratura serba è generosa in opere in cui si piangono le terre perdute e in cui la nostalgia diventa
passione violenta. In "Migrazioni" di Milos Tsernianski, uno dei più bei romanzi del '900 slavo,
si scopre questo animo serbo, in cui non manca certo né orgoglio né coraggio. Dei mercenari ortodossi
al servizio della cattolica Maria Teresa d'Austria navigano da un paese all'altro, nell'Europa del Settecento,
in preda a frustrazioni, nobiltà e ferocia, sognando una patria della quale non sanno dire quali siano i
confini. Dicono i mercenari serbi di Slavonia: "La Serbia è ovunque si trovi una tomba serba".
Così definiscono la loro mistica patria. Grande è la tentazione di vedere in Milosevic un demone
annidatosi in un sentimento incerto, per indurlo alla sopraffazione, al male, e allontanarlo dall'altra sua generosa
natura. Insomma il baco velenoso in un frutto.
L'immagine però non riflette tutta la realtà: perché il nazionalismo primitivo che Milosevic
strumentalizza, e al quale la Nato ha dichiarato di fatto la guerra, può avere ben altre qualità:
è capace di opporre una resistenza altrettanto primitiva, cocciuta, assai più tenace del previsto,
senz'altro audace, e per certi aspetti ammirevole. Le esperienze belliche degli ultimi decenni hanno rivelato alla
superpotenza americana che le guerre non si vincono facilmento dal cielo. La Jugoslavia di Milosevic non ha soltanto
l'irrecuperabile svantaggio di una piccola nazione messa a confronto con la più grande alleanza della storia,
ha anche quello di essere un paese tecnicamente avanzato, quindi molto più vulnerabile del remoto (e in
questi casi ovviamente citato) Vietnam. Ha al tempo stesso il vantaggio, sia pur effimero, di disporre di una società
in cui il nazionalismo primitivo può indurre non pochi a morire. Mentre la morte è virtualmente esclusa,
è tollerata come incidente non ammessa come sacrificio, dalla superpotenza che combatte dal cielo. Insomma,
prima di essere sconfitto, Milosevic potrebbe rivelarsi una trappola.