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"Il dittatore con l'arma della tv" di Paolo Rumiz

Ponti, caserme, raffinerie: ripetitori niente. Tra i misteri di questo bombardamento che sarà magari "intelligente" ma intanto accelera la pulizia etnica, rafforza i falchi a Belgrado e distrugge l'opposizione democratica in Serbia, vi è anche quello di aver lasciato intatto proprio il cuore del potere di Milosevic: l'informazione. In otto anni di guerra, pare che i generali della Nato non abbiano ancora capito che la sua arma più potente non sta nascosta nella contraerea o nei carri armati ma nel linguaggio e nei palinsesti di Radio Belgrado. In un dominio immateriale e assoluto.

Mentre le bombe demoliscono, la Tv serba costruisce miti. È da secoli la specialità nazionale: negare la realtà, trasformare disfatte in vittorie, in glorificazioni celesti. Accadde con la sconfitta per mano turca, sei secoli fa. È accaduto nel 1995 con la fuga in massa dei serbi dalla Croazia. Succede anche oggi. Tutta la macchina propagandistica belgradese, tutti gli intellettuali di regime, i giornalisti, i servizi segreti e i persuasori occulti sono mobilitati in questa straordinaria operazione mitologica.

"Dimostrarsi capaci di resistere anche per un solo giorno alla più grande coalizione armata del Pianeta, significa aver vinto" recita in tv lo scrittore Momo Kapor, uno che preparò la pulizia etnica in Bosnia con spaventosi versi al veleno contro i musulmani. Dopo un intervallo di canti patriottici, spunta una bambina che recita: "A dispetto della tecnologia della Nato, i vincitori siamo noi. Tutte le virtù e tutte le ragioni della Terra stanno dalla nostra parte. Viva Milosevic".

Sembrano gli ultimi giorni di Ceausescu in Romania. Ma intanto, il bombardamento cui sono sottoposti i serbi in questi giorni attraverso i media pare più efficace di quello degli Alleati atlantici. Pensate a un contadino delle pianure dello Srem o dei boschi della Sumadija: uno che non legge né libri né giornali, uno che quando torna dai campi non ha altro segnale dal mondo che la radio. Mettetevi nei suoi panni e ascoltate.

Ore 20, Radio Uno: parla il professor Milutin Stojkovic da Belgrado. "Serbo, ti sto guardando e vedo che sei un uomo coraggioso, pieno d'orgoglio. Hai tutte le ragioni di essere così. Con questa Armata, con questa classe dirigente, con questo capo supremo non potremo che vincere qualsiasi aggressore". E il signor Zivko Zivkovic da Lazarevac: "Siamo determinati a difendere la nostra patria, come i nostri padri e i padri dei nostri padri. Viva la Serbia, viva la Jugoslavia, viva il nostro capo supremo".

Un dizionario di guerra è già stato distribuito alla stampa jugoslava dal ministro dell'informazione. Clinton è "il nuovo Hitler", uno "psicopatico", un "fascista idiota". Il presidente è sempre "amato", e l' Armata infallibilmente "coraggiosa e capace". Il termine "barbara aggressione" è obbligatorio per definire i raid della Nato. Quanto al popolo, è "in marcia verso la libertà". La censura è completa. Niente commenti liberi, soprattutto niente allusioni all'isolamento internazionale del Paese.

Ma la cosa più importante è far sì che la gente senta i raid come un attacco ai serbi, non al regime. Per questo è vietato far sapere cosa quel regime sta facendo in Kosovo. Così, la più spaventosa pulizia etnica del dopoguerra scompare dai notiziari. La gente sa solo che molti albanesi fuggono "a causa delle bombe della Nato". Per il resto, resta al buio, chiusa in una cappa di disinformazione che ne alimenta il vittimismo cosmico. Un oscuramento completo, come durante i massacri in Bosnia o la distruzione di Vukovar. Tutto lontano, astratto, inconcepibile.

"All'inizio c'era il Verbo; un Verbo malizioso, isterico e criminale", scriveva già sei anni fa il sociologo belgradese Vojin Dimitrijevic. Alludeva a una guerra dove le cannonate dei media avevano già fatto più danni di quelle dei cannoni; a un conflitto costruito scientificamente, con anni di anticipo, attraverso iniezioni di orgoglio, paura e aggressività nella psicologia di massa, dosaggi di adrenalina, cloroformio e veleno. Sono almeno dieci anni che gli intellettuali serbi e l'Università di Belgrado ci avvertono del pericolo. Inutilmente.

È con l'avvento al potere di Milosevic, nel 1987, che le saracinesche cominciano a chiudersi sul cosmopolitismo di una grande capitale europea, Belgrado. È l'anno della rivoluzione culturale serba, quando negli stereotipi moribondi del socialismo, nei luoghi comuni della "fratellanza e unità" irrompe un linguaggio nuovo, fatto di esclamazioni, simboli, irrazionalità, demagogia e destino. La parola "Zemlija", terra, è sostituita da "Otadzbina", patria. Tramonta il "popolo lavoratore", nasce il "popolo serbo". E la questione sociale diventa etnica. Il perno del deragliamento è proprio il Kosovo, la regione più depressa e analfabeta d'Europa. Laggiù, serbi e albanesi sono schiacciati dalla stessa povertà e corruzione. Ma per gli intellettuali dell' Accademia delle scienze di Belgrado il vero problema è il "genocidio fisico, politico, legale e culturale del popolo serbo". Milosevic, un grigio apparatcik che fino ad allora non ha mai mostrato tendenze nazionaliste, coglie al volo l'occasione. "Il Kosovo - dichiara all'esecutivo federale della Lega dei comunisti - non è più una questione di politica. È una questione di patria". "Nella storia della manipolazione di massa e del fascismo contemporaneo - scrive il giornalista inglese Mark Tompson - la campagna del Kosovo ha un ruolo esemplare". La tempistica è impressionante. Prima si evocano gli stereotipi etnici. In una rassegna orchestrata di lettere sul quotidiano "Politika", il popolo serbo diventa "popolo celeste", benedetto da Dio ma privato della leadership che gli spetta, umiliato dagli altri popoli. In primo luogo dai musulmani, definiti "parassiti" che succhiano il sangue della nazione. Solo
loro e non del partito la colpa della bancarotta.

È il segnale che apre la via alla fase due, l'evocazione del sospetto. Nel 1988 troupes televisive belgradesi d'accordo con la polizia organizzano sul più noto "magazine" nazionale lunghi reportages in Kosovo e in Bosnia sui privilegi dei musulmani rispetto ai serbi: strade e scuole migliori, telefoni allacciati prima. È tutto falso, la tv di Sarajevo lo dimostrerà in pochi giorni. Ma intanto in Serbia l'impressione è enorme. L'anno seguente tocca alla costruzione del destino. Radio e tv sono inondate di storia medievale, canti patriottici. In questo clima Milosevic torna in Kosovo, sul luogo della sconfitta patita seicento anni prima dai serbi a Kosovo Polje. Nel giorno dell' anniversario della battaglia, davanti a un milione di persone e a centinaia di giornalisti, dichiara in diretta tv che "uno scontro non può essere escluso". I serbi lo acclamano come il nuovo "Vozd", il duce. La strada di una storica resa dei conti è già indicata, già inevitabile e fatale.

Siamo all'epilogo, alla mobilitazione dei morti per costruire il panico e quindi l'aggressività. Nel 1990 vengono riaperte le foibe dove i croati, nella Seconda guerra mondiale, hanno gettato migliaia di serbi. Le riesumazioni vengono accuratamente filmate nei più macabri particolari, accompagnate da interviste dei testimoni di allora e da canti religiosi, affiancate ai telegiornali che lanciano segnali d'allarme dalla Croazia "nuovamente fascista" per l'avvento di Tudjman. Le vecchie ossa ammoniscono il popolo serbo che la storia può ripetersi. Si infrange l'ultimo tabù, si interrompe la lunga amnesia di Stato sugli scontri etnici, si produce un'ondata di emozione collettiva che travolgerà ogni argine verso la guerra.


REALIZZATO DAL GRUPPO "COMUNICARE" DEL LICEO SCIENTIFICO KEPLERO DI ROMA