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Anch'io mi sento albanese

In merito all'intervento della Nato in Kosovo, penso ci sia un elemento che nessuno può contestare: i raid, le bombe, non sono stati provocati da un interesse concreto. Hanno, cioè, un carattere esclusivamente umanitario: in gioco qui ci sono i principi, i diritti umani ai quali è stata accordata una priorità rispetto anche alla sovranità degli Stati. È questo che rende legittimo attaccare la Federazione jugoslava anche senza il mandato dell'Onu. Ma sulla base della mia esperienza personale, sono altrettanto certo che soltanto con il tempo si potrà valutare obiettivamente ciò che sta accadendo in questi giorni in Jugoslavia e le sue ripercussioni sulla Nato.

Oggi l'esigenza fondamentale è che si possa fermare il massacro, che i profughi possano liberamente tornare nelle loro case, che sia riaperto da qualcuno il ciclo delle trattative politiche per lo statuto del Kosovo. E che presto sul terreno possano essere inviati degli osservatori di pace - meglio se approvati anche dai serbi - per garantire la fine dei massacri e delle violazioni dei diritti umani.

Io stesso, se qualcuno lo proponesse, mi impegnerei di buon grado in un ruolo di negoziato, qualora dovessero riaprirsi spiragli per trattative. Ma non posso dimenticare che negli ultimi mesi dello scorso anno avevo già proposto alcune soluzioni della crisi, non accettate per diversi motivi. I conflitti vanno sempre previsti per tempo, e per tempo fermati con soluzioni appropriate. Ma nel caso della guerra in Kosovo, mi sembra di poter dire che sia stato trascurato qualcosa di assai importante: il regime di Milosevic ha già scatenato conflitti contro la Slovenia, la Croazia, la Bosnia-Erzegovina. La Nato è intervenuta tardi.

Adesso provo un certo fastidio: dopo la battaglia, sono tutti generali. Le riserve nei confronti dell'intervento, anche nel mio paese, avrebbero dovuto essere espresse ben prima. Ci sono stati lunghi mesi di trattative, a Rambouillet, e anche la Repubblica Ceca, che pure non era ancora membro della Nato, ha avuto la possibilità di esprimere le proprie posizioni. Questa è una delle differenze tra l'appartenere al Patto di Varsavia o alla Nato. Quando eravamo soltanto un paese satellite dell'Urss governato da una dittatura, avevamo la funzione di una semplice unità di guerra dell'Armata Rossa, del tipo da prima linea; eravamo in silenzio, pochi avevano il coraggio di criticare, e quei pochi diventavano dissidenti, bollati come matti dal resto della popolazione.

Ora che abbiamo raggiunto la libertà dobbiamo imparare a diventare solidali, ad assumerci liberamente e consapevolmente le nostre responsabilità nei confronti degli altri. Un qualcosa di completamente diverso dalla lealtà forzata cui eravamo costretti nel Patto di Varsavia. Per questo penso che ora tutti i membri della Nato dovrebbero essere leali: si parla di intervento di terra, ma esistono diversi tipi di interventi di terra, anche per assistenza umanitaria, accoglienza dei profughi o una partecipazione più attiva come quella che avvenne in Bosnia. Fondamentalmente, credo che in veste di membro di questa Alleanza, la Repubblica Ceca non possa esimersi dai suoi obblighi e dai suoi impegni. Non si può diventare il paese che spera che gli altri aiuteranno senza essere disponibile ad aiutare.

C'è chi ci ricorda che tra i paesi della Nato, la Repubblica Ceca ha una posizione particolare, per i buoni rapporti che nel passato ci legavano alla Jugoslavia. Ma questo conflitto maturava da dieci anni, e ogni osservatore sensibile doveva sapere che qualcosa stava per succedere, che si sarebbe giunti a questa esplosione di violenza. È inutile, adesso, ricordare che la Jugoslavia è stato nostro amico, scambiando la vecchia Jugoslavia per quella nuova.

Loro, sotto il termine Jugoslavia, intendono la costa dalmata, dove tutti i cechi andavano in vacanza: ma si tratta della Croazia, da tempo indipendente. Voglio ricordare che Dubrovnik, Spalato, posti per noi cari, sono stati bombardati dal signor Milosevic. E questo c'entra poco con quando la Jugoslavia era solidale con noi nel 1968: si trattava solo dei serbi, allora? No, c'erano anche gli albanesi del Kosovo, i croati, gli sloveni, i macedoni.

Mi hanno scritto attori di teatro che mettono in scena da dieci anni le mie opere e che mi vogliono bene: "Cosa abbiamo fatto di male per essere bombardati?", mi chiedono. A me non hanno fatto niente, naturalmente, ma il loro regime, con l'aiuto delle sue componenti militari, massacra i loro concittadini, un grande gruppo di loro concittadini. E quello che quel regime fa con quegli albanesi è come se lo facesse a me. È quel principio base per cui se si maltratta qualsiasi persona è come se lo si facesse a noi stessi. E questo è un principio di solidarietà umana che sorpassa la frontiera degli stati, delle regioni. Io non credo che con Milosevic, oggi, si possa stipulare la pace, o assicurare una convivenza civile tra tutte le etnie di quella regione.

Milosevic ha le mani troppo sporche di sangue per diventare affidabile e sbaglia chi dice che questa guerra potrebbe avere frenato la lenta avanzata della democrazia in Serbia e Montenegro. Il male deve essere affrontato. E se dicessimo: aspettiamo ancora dieci anni perché forse così la democrazia si svilupperà, sarebbe solo una scusa, un pretesto artificioso.


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