Ma non è l'Olocausto
Quando ascolto le testimonianze dei profughi fuggiti dal Kosovo, penso
tra me e me: se mi avessero cacciato da casa, dandomi dieci minuti per fare i bagagli, che cosa mi sarei portato
dietro? Cibo? Acqua? Una coperta? E che cosa avrei preso per i bambini: forse il loro giocattolo preferito? Dolci?
Latte in polvere? Qualche medicina? E che cosa si porta con sé per sopravvivere non soltanto nelle successive
ventiquattro ore, ma per conservare nei giorni a venire anche il proprio passato, la memoria e l'identità?
Forse gli album delle foto, documenti importanti, vecchie lettere.
Vorrei che ognuno pensasse per dieci secondi a che cosa avrebbe portato con sé in circostanze simili, e
a che cosa potremmo dare a chi oggi si trova realmente in quelle condizioni.
Noi israeliani siamo molto lontani dal Kosovo e non possiamo fare molto. Tuttavia negli ultimi giorni finalmente
Israele si è svegliata e si muove. Così avremmo voluto vedere sempre noi stessi, in ogni situazione
analoga: sensibili alla sofferenza altrui, capaci di identificarci completamente con chiunque subisca un torto,
con ogni vittima, profugo o gente cacciata dalla propria casa, utilizzando la nostra grande forza, le nostre possibilità
economiche, per riparare finalmente qualcosa nel mondo.
So che alcuni paragonano quello che sta avvenendo in Kosovo con l'Olocausto. Io rifiuto questo genere di paragone.
Primo, perché le catastrofi non possono essere confrontate: probabilmente c'è un bisogno umano di
catalogare, paragonare, mettere in relazione gli eventi, ma credo che ogni confronto sia ingiusto verso entrambe
le tragedie. Poi ci sono differenze sostanziali tra l'una e l'altra. I serbi non stanno cercando di sterminare
gli albanesi del Kosovo, mentre l'obiettivo dei nazisti era cancellare l'intero popolo ebraico dalla faccia della
terra. Intendevano far scomparire gli ebrei non da un territorio, ma dal mondo, in quanto razza da estinguere,
e insieme alla razza estinguere la cultura ebraica, le sue tradizioni, la sua storia.
Da questo punto di vista, la pulizia etnica contro i kosovari e il genocidio contro gli ebrei non sono paragonabili.
Eppure immagino che Milosevic abbia studiato attentamente le tecniche usate dai nazisti nella Shoa: la sua operazione
contro i kosovari viene compiuta sistematicamente, cinicamente, e sembra che fosse preparata da molto tempo nei
minimi dettagli.
Quello che i serbi stanno facendo in Kosovo non è altro che il trasferimento di un popolo, un'espulsione
di massa da un paese all'altro: ciò che da noi in Israele viene chiamato "transfert" dal partito
di estrema destra che propone appunto di espellere un milione di arabo-israeliani. Dunque faremmo bene a osservare
attentamente le immagini che ci arrivano dal Kosovo, per comprendere esattamente il significato più autentico
di quella realtà. Dobbiamo capire in che modo può avverarsi un sogno distorto, coltivato anche da
alcuni di noi israeliani; e forse così potremo cancellare definitivamente questa ignobile possibilità
dal nostro vocabolario.
Le azioni umanitarie compiute in questi giorni da Israele vengono seguite con occhi particolarmente attenti dai
nostri vicini: è indiscutibile che il sostegno offerto ai profughi albanesi avviene senza alcun riguardo
alla loro religione o fede, vengono aiutati semplicemente perché sono persone bisognose, e questo è
il lato più umano e più bello della nostra solidarietà. In Israele dobbiamo essere consapevoli
che l'assistenza ai kosovari avrà una grande importanza anche nel nostro dialogo con i paesi arabi confinanti.
E avrà un effetto fondamentale nel cuore dei cittadini arabi di Israele: vedranno che, forse per la prima
volta, lo Stato cui appartengono si mobilita con tutta la generosità di cui è capace per quelli che
loro considerano fratelli, per altri musulmani.
Mentre aiutiamo gli albanesi del Kosovo, mentre trasmettiamo ai kosovari la nostra solidarietà, c'è
una domanda che mi sembra doverosa: come è possibile che quando si tratta di profughi perseguitati lontano
dai nostri confini, noi israeliani siamo così pronti a comprendere la loro sofferenza, così entusiasti
di aiutarli; mentre a quanto pare ci è difficile o addirittura impossibile avvicinarsi alla sofferenza dei
profughi che sono i nostri vicini di casa, i palestinesi, gente nella cui tragedia siamo direttamente coinvolti
da oltre mezzo secolo.
Bisogna aiutare i profughi albanesi con una motivazione universale: perché sono gente disperata. Genitori,
bambini, vecchi senza più speranza. Certo, aiutarli è un'operazione vasta e complessa, ma comunque,
alla fine della lunga catena, si trova sempre un uomo che riceve almeno una pagnotta o un piatto di riso, e noi
ebrei in questi giorni pensiamo a lui, a quest'uomo. Perché nessuno sa meglio di noi che una persona cacciata
dalla propria casa, i cui parenti sono stati uccisi, che deve lottare per un pezzo di pane o per trovare una coperta
per scaldarsi, può perdere facilmente la voglia di vivere. E se gli daremo qualcosa, una tenda, un piatto
di minestra, medicinali per i suoi bambini, salveremo non solo la sua vita e quella di suo figlio, ma gli daremo
forse, in mezzo a tutta la disperazione in cui si trova, l'ultima ragione per voler continuare a vivere.
E proprio perché essere profugo e sradicato è una condizione che ci è tanto familiare, come
figli del popolo ebraico, proprio per questo noi dobbiamo essere presenti, là, nei campi profughi del Kosovo,
quando è in atto una tale tragedia. A noi è vietato negarla. Poiché anche chi è nato
qui in Israele e non è mai stato esule, profugo e nemmeno emigrante, conosce dai racconti uditi dai nonni
o sfogliando l'album di famiglia o da quello che gli è inciso nei geni, cosa vuol dire essere cacciato,
umiliato, vittima. Nel momento in cui contribuiamo agli aiuti, formuliamo una possibilità di un comportamento
umano diverso, senza dubbio migliore, fra un uomo e il suo prossimo, e più in generale tra popoli e genti.
Con ogni spicciolo che noi diamo, con ogni indumento o vaccino contro l'epatite comprato con quei soldi, noi in
realtà diciamo: è possibile agire diversamente, è possibile essere diversi, e quanto più
lo faremo con generosità e determinazione, tanto più questo sistema diventerà naturale e diffuso.
Occorre ribadirlo a voce alta e limpida, con parole fatte di pane, di latte e di riso: noi non siamo disposti a
lasciare l'arena al dominio incontrastato dei comportamenti bestiali e dell'indifferenza.
Albert Camus diceva che questo passaggio fra discorrere sulla moralità e l'azione morale ha un nome: si
chiama "diventare uomo". Oggi, di fronte al Kosovo, quell'espressione ha una valenza concreta, semplice
e immediata: dare, contribuire, tendere la mano a chi soffre.
(traduzione di Sarah Kaminski)