Protocollo per una guerra che è ancora da vincere
Andare in guerra ha senso solo per uno scopo: vincere. Per farlo, in
primo luogo è necessario rispondere a una serie di domande molto difficili. Ma la Nato rifiuta perfino di
affrontare queste domande, e tanto più di trovare risposte realizzabili; è questo rifiuto che ha
portato al pasticcio che ora abbiamo tutti di fronte.
La Domanda Numero Uno deve essere: perché andiamo in guerra? Qual è esattamente la nostra motivazione?
Se siamo stati attaccati direttamente, la risposta è evidente: autodifesa. Se è stato attaccato un
amico o un alleato: solidarietà. Se un tiranno ha invaso un vicino di casa di enorme importanza strategica
per noi (Kuwait) la risposta è: interessi nazionali irrinunciabili. Nessuna di queste motivazioni vale per
il Kosovo.
Ma c'è una quarta risposta: semplice compassione umana. In alcune circostanze è perfettamente giustificabile.
Non abbiamo alcun dubbio che nei suoi dieci anni al potere Slobodan Milosevic sia stato ispiratore del genocidio
puro, più di qualunque altro leader europeo dopo il 1945. Nella sua ricerca di una Grande Serbia etnicamente
omogenea ha diffuso morte, malattie, fame, miseria, dolore ed esilio in tutta la ex Jugoslavia. Anche i non serbi
hanno dato il loro contributo, ma per l'80 per cento il responsabile è Milosevic, che possiede la maggior
parte delle armi pesanti.
Genocidio è una parola sporca, ora mascherata dall'eufemismo "epurazione etnica". I modi per realizzarlo
sono cinque. Si possono massacrare le vittime fino all'ultimo uomo, donna e bambino. Si può distruggere
il loro intero sistema di approvvigionamento finché non corrono a nascondersi nelle foreste e nelle montagne
dove la Natura completerà l'opera con fame, freddo e malattie. Si possono costringere le vittime all'esilio
al di là dei confini, in modo che una diaspora costante a livello mondiale assicuri che quella nazione non
esista più. Si possono far lavorare fino alla morte come schiavi nei campi di lavoro, oppure si possono
sterilizzare/annientare i giovani uomini in modo che non possano più procreare. Milosevic sta infierendo
con i primi tre metodi.
In questo non c'è nulla di nuovo. I pogrom contro i kosovari hanno avuto inizio subito dopo la sua ascesa
al potere dieci anni fa, e negli ultimi tre anni è stato un costante crescendo. Un centinaio di giorni fa,
agenti britannici e americani a Belgrado hanno fornito ai loro padroni politici le prove, al di là di ogni
dubbio, che questa primavera ed estate Milosevic aveva intenzione di realizzare la soluzione finale. È stato
per questo che Clinton e Blair, in possesso di tali prove, hanno convinto gli altri diciassette leader nazionali
che, in tutta coscienza, non potevamo starcene con le mani in mano a girarci i pollici. Non potrei biasimarli per
quella decisione.
Ma poi si arriva alla Domanda Numero Due: qual è l'obiettivo dell'azione, qual è la mossa finale?
E qui ormai si è già persa la strada. Ci è stato detto che avremmo impedito la distruzione
del popolo kosovaro. Invece non è stato così. I kosovari vengono sistematicamente distrutti come
gruppo etnico vitale proprio nel momento in cui leggete queste righe. Ci è stato detto che la guerra avrebbe
costretto Milosevic ad accettare i termini di Rambouillet che aveva precedentemente rifiutato. Ma questi termini
prevedevano che il Kosovo restasse nella Jugoslavia, sotto Milosevic, con diecimila poliziotti serbi a mantenere
l'ordine.
Dopo quanto è già accaduto, tutti sanno che non c'è la minima possibilità che i kosovari
tornino a casa a queste condizioni, né potremmo mai costringerli a farlo. Quindi Rambouillet è defunta;
ora sarà necessario un mini-stato kosovaro separato, con confini difendibili e protezione della Nato. E
dunque l'obiettivo dell'azione è già completamente diverso, e assolutamente inaccettabile per Belgrado.
Un accordo in questo senso è escluso. Se l'affermazione di Blair ("la nostra sola via d'uscita è
la vittoria") deve aver senso, dobbiamo cercare di sconfiggere, non di persuadere i serbi.
E infine la Domanda Numero Tre: come facciamo esattamente a raggiungere questo obiettivo finale? A questo punto
i politici saggi interpellano i generali e li ascoltano. Clinton e Blair non lo hanno fatto. Avevano a disposizione
gli uomini che avevano vinto in circostanze pazzesche alle Falkland e che avevano vinto in quattro giorni in Iraq.
E loro, che non avevano mai indossato un'uniforme, sparato un colpo, schivato un proiettile o pilotato un aereo,
si sono rifiutati di ascoltare. Questa guerra non sta andando male a causa dei guerrieri professionisti, ma per
colpa di incompetenti interferenze politiche.
In poche ore hanno commesso quattro errori madornali. Il primo è stato di autoconvincersi che i bombardamenti
da soli avrebbero funzionato. (Nessun generale dell'esercito o dell'aviazione da Roma a Washington ci credeva).
Poi hanno annunciato pubblicamente che nessun soldato alleato avrebbe varcato il confine. È stato come dire
a Milosevic: "Sbrigati, che forse ce la farai". E com'è naturale, Milosevic si è gentilmente
prestato. In terzo luogo, hanno rifiutato di aspettare sessanta giorni che il cielo si rasserenasse. Risultato?
Il sessanta per cento delle nostre missioni di bombardamento sono state interrotte a causa delle nuvole basse,
i nostri piloti addestrati per l'attacco a bassa quota sul Kosovo stanno cercando di individuare cannoni e carri
armati mimetizzati da un'altezza di 5000 metri (come ex pilota posso assicurarvi che non è possibile), gli
squadroni della morte proseguono indisturbati la loro opera e abbiamo perfino colpito per sbaglio dei contadini
kosovari.
Infine, i politici hanno rifiutato di tenere in serbo anche una sola tenda, una branda, una cucina da campo o una
coperta per l'inevitabile fiumana di profughi. L'equivoco politico sulla situazione Belgrado/Kosovo è stato
totale. Ora ci viene detto che il bombardamento della Serbia continuerà "per tutto il tempo che sarà
necessario". Non basta. Il tempo scorre inesorabile. Fra altri 40 o forse 60 giorni non ci sarà più
un Kosovo da liberare né una popolazione da riportare a casa.
Peggio ancora, nemmeno la Nato potrebbe durare altri sessanta giorni. A Roma, Parigi e Berlino, la Sinistra sta
minacciando di far cadere i governi (strano, se pensiamo che stanno combattendo un regime fascista che compie massacri
di massa); la Grecia sostiene la Serbia all'unanimità, almeno a livello popolare; tutti i governi tranne
quello britannico continuano a rifiutare di credere a ciò che è ovvio: che il Kosovo non può
essere liberato senza forze di terra, perché non si può bloccare la macchina del genocidio da cinquemila
metri di altezza. Infine, a questo punto Milosevic non può arrendersi: verrebbe impiccato dai suoi estremisti
se dicesse loro che la devastazione del loro paese è stata inutile.
C'è una sola via d'uscita da questo inferno: riversare 40.000 giovani volontari kosovari nel loro paese
d'origine, equipaggiati con ogni arma che siano in grado di maneggiare; paracadutare armi alle decine di migliaia
di altri giovani kosovari che si nascondono nelle montagne e nelle foreste del massiccio centrale; prestare loro
alcuni dei nostri addestratissimi uomini delle forze speciali come addetti alle trasmissioni e alla localizzazione
dei bersagli; fornire loro una copertura aerea totale. Non c'è la minima prova che i soldati e i poliziotti
serbi, per non parlare dei paramilitari psicotici di Belgrado, siano migliori dei kosovari all'interno del loro
paese. Milosevic inizierà a negoziare solo se comincerà a contare un numero rilevante di vittime
e la perdita di qualche settore, come ha fatto quando, alla fine, ha incontrato i croati su un piede di parità.
Contemporaneamente, dovremmo fare pressione su Mosca perché svolga un ruolo di protagonista nella creazione
di un Nuovo Kosovo sotto protezione della Nato e della Russia, più piccolo ma non più sotto il governo
di Belgrado. Solo allora potremo persuadere l'ondata di profughi a tornare a casa e dar prova della nostra filantropia
aiutandoli a ricostruire la loro terra distrutta.
(traduzione di Metella Paterlini)