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Quando la storia torna sul luogo del delitto

Di recente ho ricevuto una lettera da Israele con la fotografia di un bambino di sette anni al quale era stato imposto il nome di Babij Jar; certamente non in onore della mia poesia omonima, ma in ricordo del luogo di Kiev dove fu perpetrato uno dei più atroci delitti del ventesimo secolo. I genitori spiegavano nella lettera di aver dato al figlio quel nome perché ogni volta, pronunciandolo, la gente rammentasse cosa era accaduto a Babij Jar o, non conoscendo i fatti e chiedendo il significato del nome, fissasse per sempre nella propria mente quelle due parole. Oggi, chissà perché, vorrei che quel piccolo avesse il volto di un bambino albanese o serbo...

La storia, come Raskolnikov, torna molto spesso sul luogo del delitto. Oggi è tornata nei Balcani dove, all'inizio del secolo, con l'attentato all'arciduca Ferdinando, ebbe inizio la prima guerra mondiale.

Durante il periodo della guerra fredda, quando sul problema di Berlino si assisteva all'aspra contrapposizione tra Occidente e Urss, chiesi al poeta americano Robert Frost in visita a Mosca: "Ma che cosa ne farebbe lei di Berlino?". "Io semplicemente non la farei" ridacchiò maliziosamente Frost con la sua aria da farmer. Se oggi fosse ancora in vita Frost potrebbe dare la stessa risposta sui Balcani. Le persone hanno trasformato questa regione in un luogo stregato che nasconde negli anfratti tra le rocce un nido di serpenti di guerre future. Prudenza con i Balcani. Se, con eccessiva presunzione, si va a frugare in questo nido con la punta di uno stivale militare straniero, con un bastone imperioso alla maniera colonialista o con missili alati, i serpenti delle guerre, risvegliati, potrebbero strisciare lontano e qualcuno, gonfiandosi come un cobra, trasformarsi da guerra locale in conflitto mondiale, annientando col proprio veleno l'intero globo terrestre.

La posizione della Russia, contraria ai bombardamenti sulla Jugoslavia, non significa per niente "odio verso l'America", ma deriva da fattori storici e naturali. La comune religione ortodossa. L'affinità delle lingue che permettono a un serbo di capire un russo e viceversa. L'aiuto tradizionalmente prestato dai russi ai serbi nei momenti difficili della loro storia. Gli innumerevoli matrimoni misti nel secolo scorso e in questo. Il maresciallo Tito, ammiratore dell'attrice russa Tatjana Okunevskaja, interprete principale del famoso film "Notte sopra Berlino", l'aveva pregata di trasferirsi in Jugoslavia.

Dopo la rivoluzione del 1917 Belgrado fu uno dei maggiori centri culturali dell'emigrazione russa. Durante l'infanzia tutta la mia generazione si è appassionata alla lettura dei "Racconti del Montenegro" divenuti un classico della letteratura russa tradotta. Le imprese dei partigiani jugoslavi in lotta contro i nazisti nella Seconda Guerra Mondiale sono state di esempio ai nostri soldati ed hanno ispirato poeti russi famosi. Si potrebbe raccogliere un'intera antologia di poesie russe sulla Jugoslavia.

Quando nei rapporti distaccati e freddi di un impeccabile portavoce della Nato ho sentito che la città di Kraguevac costituiva uno dei bersagli da colpire ho avuto un sussulto poiché questo nome era il simbolo dell'eroica resistenza del popolo jugoslavo agli occupanti hitleriani. Una altrettanto eroica resistenza fu opposta dagli jugoslavi al regime staliniano. Ma questa non si è mai trasformata in odio. Quando la Jugoslavia fu bollata come repubblica-rinnegata dalla propaganda del Kominform migliaia di cittadini si riunirono sotto le finestre dell'ambasciata dell'Urss cantando in coro, per esprimere la loro protesta, le più amate canzoni sovietiche "Tiomnaja noc" e "Shalandy polnye kifali". Allora i quotidiani moscoviti chiamavano Tito non più eroe, ma traditore. Eppure questo appellativo mai attecchì tra la popolazione.

Ricordo che nel 1948 io e mio padre andammo ad uno spettacolo del circo di Mosca. Un clown introdusse sulla pista un enorme cane con sulla testa un berretto da maresciallo jugoslavo. La bestia teneva stretto fra i denti un pacchetto di giganteschi dollari falsi. "Ehi, Tito venduto", gridò il clown con voce stridula, ridendo del suo volgare calembour. La sala rimase nel più assoluto silenzio. Era troppo grande nel nostro popolo la stima per gli jugoslavi compagni di lotta contro il nazismo. "È disgustoso. Usciamo da qui" esclamò mio padre alzandosi.

E all'improvviso i padri e le madri presenti cominciarono ad alzarsi dai loro posti portando con sé i figli. La sala del circo si svuotò. In seguito mi raccontarono che quello squallido numero di propaganda era stato tolto dal programma.

Nel 1950 lo scrittore Orest Maltsev ricevette il premio Stalin per il romanzo pamphlet "La tragedia jugoslava" nel quale si gettava discredito sul movimento partigiano in Jugoslavia. Dopo numerose riedizioni l'autore stipulò un contratto con gli studi cinematografici per portare il romanzo sullo schermo. Su di lui piovvero soldi, ma da quel momento molti scrittori gli tolsero il saluto. Si costruì a Peredelkino una dacia di dimensioni gigantesche per quei tempi. Poi, dopo la morte di Stalin, Krusciov si rappacificò con Tito. Le riedizioni de "La tragedia jugoslava" cessarono e il film fu interrotto. Maltsev cadde in povertà e fu costretto a vivere in quella enorme dacia a carico della sua ex domestica. Nel negozio dove si recava ogni tanto per acquistare una bottiglia di vodka a buon mercato e una scatola di aringhe dicevano, additandolo: "Dio lo ha punito per la Jugoslavia".

La Jugoslavia è stata per lungo tempo il più fiorente e il più indipendente paese dell'area socialista o almeno a noi pareva così. Solo in seguito, dopo la morte di Tito, col crollo della federazione jugoslava tenuta insieme dalla sua "stalinista volontà anti-stalinista", grazie ai geniali film di Emir Kusturica "Papà è in viaggio d'affari" e "Underground", abbiamo cominciato a comprendere che non tutto era giusto e privo di errori nel paese dei nostri "compagni d'arme" jugoslavi la cui vita, ai nostri occhi così libera rispetto alla nostra, molto invidiavamo. Non per questo abbiamo cessato di amarli.

La guerra ha significato troppo per noi e quelli che si batterono al nostro fianco non possono essere abbandonati nei momenti difficili. Non hanno per caso dimenticato tutto ciò gli attuali paesi membri della Nato che combatterono contro il nazismo a fianco degli jugoslavi? Ancora poco tempo fa Russia e Usa hanno festeggiato la fine della guerra fredda. Ma non appena le bombe Nato hanno cominciato a cadere sulla Jugoslavia, lo scheletro della guerra fredda, risvegliato dalle esplosioni, ha sollevato la lapide e sembrerebbe essere già saltato dalla tomba sul suolo russo indossando sul cranio ora la maschera da cane randagio di Zhirinovskij, miserabilmente raggiante della possibilità di abbaiare contro l'elefante americano; ora i bellicosi baffi del presidente bielorusso; ora gli occhiali da sci di uno sconosciuto terrorista nel tentativo di sparare sull'ambasciata americana con un bazooka. Non si poteva immaginare miglior regalo delle bombe sulla Jugoslavia per questi degni personaggi. Hanno ripreso fiato quei politici, ingannatori del proprio popolo, che hanno immediatamente approfittato dell'occasione per battere minacciosamente il pugno sul tavolo allungando contemporaneamente l'altra mano nella attesa dell'elemosina.

Ha ripreso fiato il presidente della Duma, latore da parte di Milosevic, di un progetto fantascientifico di riunificazione tra Russia, Jugoslavia e Bielorussia. Per quanto mi riguarda non credo alla convulsa solidarietà con il popolo serbo da parte di alcuni dei nostri sospettosamente sinceri uomini politici. La vera solidarietà non ha mai un ritorno politicamente vantaggioso. Ma come si può credere loro quando molti dei nostri parlamentari non hanno dimostrato la più elementare solidarietà verso i propri cittadini, i reduci di guerra in piedi con la mano tesa nei sottopassaggi pedonali, gli insegnanti e i medici senza stipendio da sei mesi, i minatori che, senza ottenere risposta, continuano a battere i loro caschi sull'asfalto.

La vergogna della situazione balcanica risiede nel fatto che alcuni cinici politici, sia da noi sia in Occidente e in Jugoslavia, giocano adesso la carta del Kosovo non nell'interesse del popolo serbo o albanese, ma soltanto per il prestigio personale, il mantenimento del potere e per l'egemonia. Occorre notare che, salvo rari casi, molti assumono posizione a favore dei serbi o degli albanesi. A mio parere, invece, la sola posizione corretta è quella pro serbi e pro albanesi allo stesso tempo, vale a dire una posizione a favore dell'uomo.

Non si devono confondere i popoli con i loro estremisti. Durante la guerra in Bosnia un'affascinante serba, insegnante di filosofia in un college americano, ha compromesso immediatamente ai miei occhi la sua intelligenza pronunciando a proposito dei bosniaci: "Questi sporchi bosniaci sono bestie selvagge. Bisogna annientarli tutti". Le sue labbra così ben modellate sembravano emettere ululati da lupo. Appena un mese più tardi, conversando con una ricercatrice bosniaca in un altro college, udii gli stessi ululati da lupo a proposito dei serbi.

Non si deve demonizzare un popolo poiché qualcuno può fare altrettanto del tuo.

Quindi, prudenza con i Balcani ma anche i Balcani devono essere prudenti con se stessi. Le ininterrotte processioni di profughi albanesi innocenti mostrate sugli schermi televisivi inclinano l'animo umano alla misericordia. Ma lo stesso sentimento suscitano le case in fiamme dei serbi. E' tragico che Russia e America vedano attraverso la televisione due guerre diverse, la guerra è una sola. In parole povere per la televisione americana sono colpevoli i serbi, mentre per quella russa la colpa è degli americani.

Prima, quando Solgenitsyn interveniva contro il potere sovietico, tutte le sue parole venivano pubblicate sulle prime pagine dei giornali americani. Adesso invece nessuno si affretta a pubblicare negli Stati Uniti quello che lui dice a proposito dei bombardamenti sulla Jugoslavia. "Sotto gli occhi dell'umanità viene distrutto un meraviglioso paese europeo con gli applausi inferociti dei governi dei paesi civilizzati. Persone in preda alla disperazione, lasciando i rifugi antiaerei, escono in catene umane incontro alla morte per salvare i ponti sul Danubio. Non è questa una regressione al passato?". Tuttavia la verità non risiede solo in questo, ma anche nella vecchietta albanese, a malapena viva, trascinata sulla neve in un sacco per immondizia verso il Montenegro per essere salvata dall'inferno del Kosovo, nella vecchietta serba, in piedi tutta la notte su un ponte con un bersaglio appeso al petto cadente, nell'atto di chiamare le bombe dal cielo ed anche nei tre prigionieri americani con i volti ancora infantili tumefatti e sanguinanti. Prudenza con i Balcani. (traduzione a cura del gruppo Logos)


REALIZZATO DAL GRUPPO "COMUNICARE" DEL LICEO SCIENTIFICO KEPLERO DI ROMA