scuola media statale di Roma

Albio Tibullo

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Albio Tibullo  (54 ca – 19 a.C) poeta latino

- Poche sono le informazioni sulla sua vita. Nacque forse a Gabii, da famiglia agiata. A Roma entrò nel circolo letterario filo-repubblicano di Messalla Corvino, che lo protesse sempre e lo volle al suo seguito, prima in una spedizione contro gli Aquitani (31-30 a.C.), quindi in Oriente. Ammalatosi in viaggio, dovette fermarsi a Corfù. Trascorse gli ultimi anni di vita tra Roma e le sue terre nel Lazio, dedito alla poesia e forse già affetto dal male che lo avrebbe portato alla morte. Sotto il nome di Tibullo ci sono giunti tre libri di Elegie, che costituiscono il cosiddetto Corpus tibullianum: in realtà si tratta forse di poesie composte da diversi autori appartenenti al circolo di Messalla, e poi raccolte sotto il nome di Tibullo, il più prestigioso. Sono sicuramente autentici i primi due libri, mentre il terzo contiene probabilmente solo due carmi di Tibullo. La sua poesia è di tipo meditativo, fatta di sogni e di illusioni; i suoi componimenti celebrano il placido ambiente bucolico, ravvivato dall'amore; i temi sentimentali, modello dell'elegia successiva, sono trattati in uno stile limpido e fluido, libero da ogni appesantimento erudito.


 I 1

 - Come un contadino -

Altri accumuli ricchezze d'oro zecchino e

tenga a coltura molti iugeri di terra,

sì che un'angoscia continua l'assilli

per la presenza del nemico,

e gli squilli delle trombe di guerra gli tolgano il sonno.

Una vita tranquilla conceda invece a me la misura,

purché sul mio focolare splenda sempre una fiamma.

Come un contadino vorrei io stesso

piantare a tempo e luogo i tralci della vite

e con mano sapiente gli alberi da frutta,

senza che la speranza mi tradisca,

ma via via mi conceda covoni di grano

e vendemmie abbondanti che colmino i tini.

Non c'è tronco solitario nei campi

o pietra antica di trivio con ghirlande di fiori

ch'io non veneri, e qualunque frutto mi dona

la nuova stagione, come primizia

io l'offro alle divinità della campagna.

Potessi finalmente vivere

felice del poco che ho e non essere costretto

continuamente a viaggiare in terre lontane;

potessi evitare il sorgere della canicola estiva

all'ombra di un albero vicino a un rivolo d'acqua.

Non mi vergognerei d'impugnare a volte la vanga

o d'incitare col pungolo i buoi quando s'attardano;

non mi lamenterei di riportare a casa,

stretta al seno, un'agnella o il piccolo di una capretta

abbandonato dalla madre smemorata.

Ma voi, ladri e lupi, risparmiate il mio minuscolo gregge:

la preda va tolta a una mandria numerosa.

Assistetemi, dei, non disprezzate i doni

che a voi vengono da un povero desco

in disadorne stoviglie d'argilla.

D'argilla era la coppa che si foggiarono un tempo

i contadini, plasmandola con la molle creta.

Io non pretendo le ricchezze dei miei padri,

né i frutti che il raccolto procurava a quegli antichi:

mi basta poca roba e, se è possibile, dormire

nel mio letto, ritemprando le membra

sul solito guanciale.

Che gioia ascoltare,coricato,

i venti che infuriano e teneramente

stringersi al petto l'amata o, quando d'inverno

lo scirocco rovescia la sua pioggia gelida,

abbandonarsi in pace al sonno,

mentre ti cullano le gocce!

Questo mi tocchi in sorte: è giusto che diventi ricco

chi sa sfidare la furia del mare

e la tristezza della pioggia.

Scompaiano tutto l'oro e gli smeraldi del mondo,

piuttosto che una fanciulla pianga per i miei viaggi.

Io, mia Delia, non inseguo la gloria:

pur di restare con te non m'importa

che mi chiamino incapace e indolente.

Voglio specchiarmi in te quando verrà la morte

e in fin di vita tenerti con la mano che s'abbandona.

Mi piangerai, Delia, e composto sul letto del rogo

coi baci verserai lacrime amare.

Mi piangerai: il tuo petto non è cinto di ferro,

nel tuo tenero cuore non hai infissa una pietra.

Da quel funerale non ci saranno giovani,

né fanciulle che possano tornare a casa

senza lacrime agli occhi.

E tu, mia Delia,

non contristare la mia ombra, abbi pietà:

non sciogliere i capelli, risparmia le tue morbide guance.

Intanto, finché il fato lo consente,

facciamo insieme l'amore: presto verrà la morte,

col capo coperto di tenebre, presto subentrerà

l'età dell'impotenza, e coi capelli bianchi

sarà diverso fare l'amore o blandirsi a parole.

Ora, ora è il tempo

di darci senza pensieri all'amore,

finché non è vergogna infrangere le porte

e dolce è intrecciare litigi.

In questo campo io sono condottiero e soldato valente;

voi, trombe e vessilli, sparite, via:

a chi ama l'avventura procurate ferite

e con queste la ricchezza.

Io, spensierato,

col mio raccolto nel granaio,

riderò dei ricchi, riderò della fame.

 

 

I 10

- Alla Pace immacolata -

Chi per primo inventò l'orrore delle spade?

Feroce quell'uomo, veramente di ferro!

Cosí per il genere umano

ebbero inizio le stragi, ebbero inizio le guerre;

cosí si schiuse la strada piú breve

d'una morte violenta.

Ma forse non ha colpa quello sventurato:

noi, noi a nostro danno abbiamo volto

ciò che ci diede contro le belve feroci.

Colpa della ricchezza che dà l'oro:

quando davanti ai cibi

si alzavano tazze di faggio,

non esistevano le guerre.

Non c'erano rocche, non c'erano fossati

e tranquillo il pastore

prendeva sonno in mezzo alle pecore sparse.

Fossi vissuto allora, Valgio!

Non avrei maneggiato strumenti di morte,

non avrei col batticuore udito trombe di guerra.

Ora sono spinto a combattere

e forse già un nemico impugna il ferro

che si pianterà nel mio fianco.

Salvatemi voi, Lari dei miei padri,

voi che m'avete allevato quando bambino

correvo innanzi ai vostri piedi.

Non abbiate vergogna

d'essere scolpiti in un vecchio tronco:

cosí abitaste l'antica casa degli avi.

Meglio si osservava la fede,

quando in una piccola nicchia

con semplice rito s'alzava un dio di legno.

Tenetemi lontane, o Lari, le lance di bronzo

...

Non è follia procurarsi con la guerra

l'orrore della morte?

Incombe, e con passi felpati giunge di nascosto.

Non ci sono messi sotterra,

né vigne coltivate,

ma Cerbero spietato

e l'infame nocchiero dello Stige;

In tempo di pace brillano aratro e vomere,

mentre arrugginiscono nelle tenebre

le armi micidiali del crudele soldato.

Vieni, vieni a me, Pace della vita,

con in mano una spiga,

e innanzi il tuo candido grembo trabocchi di frutta.

 

hanno scritto di lui:

P.Ovidio Nasone (da Amori)

..finché le fiamme e l'arco saranno armi d'Amore,

si canteranno i tuoi ritmi, raffinato Tibullo

 

Domizio Marso

Anche te in giovane età, Tibullo, ingiusta morte

mandò, compagno a Virgilio, nei campi Elisi,

perché non ci fosse piú chi piangesse in elegie i dolci amori

o chi cantasse in ritmi solenni guerre di re.